Una delle fasi più delicate di una psicoterapia, per chi fa il mio lavoro, è proprio la chiusura. Allo stesso modo è un momento chiave anche per il paziente.
Spesso si pensa che il periodo più critico sia quello iniziale, durante il quale ci si può fare prendere dall’urgenza di “mettere a posto” certi sintomi invalidanti, ma la realtà dei fatti è che molte persone sono sbalorditivamente rapide ad avviare il cambiamento, innescando il circolo virtuoso che inizia proprio nel momento in cui si decide di chiedere aiuto ad un professionista. Questo è il primo passo, ovvero la sconfitta della resistenza iniziale.
Quello che spesso osservo nel mio lavoro è che la problematica che si protrae maggiormente nel tempo, scandito dall’avvicendarsi delle sedute, è proprio la paura di stare male nuovamente.
Molte volte, infatti, le persone impiegano parecchio tempo prima di chiedere aiuto, nella speranza di riuscire a risolvere in autonomia il sintomo stesso. Se in molti casi questo permette di testare le proprie capacità, in altre situazioni rischia di trasformarsi in una sgradita e prolungata convivenza con il sintomo stesso. Occorre inoltre superare la vecchia concezione che si approccia esclusivamente alla cura dei sintomi, perché questi ultimi sono spesso espressione di malesseri profondi e complessi, che necessitano di un aiuto esterno per essere compresi, elaborati e risolti.
Ciò premesso ricordiamoci che la mente umana possiede incredibili capacità di adattamento. Abituarsi ad avere un determinato sintomo e a subirne gli sgradevoli effetti significa costringere tutte le reti di pensieri a ricostruirsi attorno al sintomo stesso, rendendolo in un certo modo quasi una parte dell’identità stessa individuale.
Quando questo avviene, la persona, anche nel momento in cui i sintomi sono scomparsi, fatica a riconoscere a se stessa di essere in una situazione di sicurezza. Quest’approccio cauto certamente induce a non abbandonare la terapia precocemente, ma nega anche la possibilità a sé di dare il giusto valore ai propri progressi.
Solo il tempo promuoverà la possibilità di generare nuove reti di pensieri che rappresentino effettivamente la situazione “attuale”.
Questo tuttavia a volte non avviene. Perché?
“Stare male psicologicamente” è un vero e proprio trauma, come lo può essere una malattia organica improvvisa. È un momento in cui tutte le certezze vengono meno, in quanto ci si sente minacciati nella sopravvivenza. Se vuoi rinfrescarti la memoria sul trauma mi permetto di rimandarti ad un altro mio articolo, che puoi trovare qui (Leggi l'articolo).
In una certa quale misura, quindi, è naturale che, temporaneamente, questa paura insorga. Parlane con il tuo terapeuta, ti aiuterà in questo difficile passaggio, che è l’ultimo sofferto passo verso la fine della terapia.
Esattamente come quando si impara a camminare, o a guidare, per esempio, ci vuole tempo prima di avere la fiducia necessaria. Prenditi questo tempo: i risultati saranno a lungo termine e aiuteranno anche a consolidare ulteriormente la tua autostima. Sei stato in grado di uscire da una situazione complessa: non è una cosa da poco!
Alcuni spunti pratici.
Puoi imparare ad interpretare correttamente i segnali corporei, che danno un’idea dello stato psicofisico che stai attraversando. L’ascolto del respiro è uno strumento facile da apprendere che ti potrebbe aiutare in questo.
Puoi persino tenere un diario delle utile volte in cui sei stato male e controllare da quanto non accade.
Presto ti convincerai del fatto che tutto sta andando per il meglio e potrai fidarti della tua ritrovata autonomia.
Dr. Marco E. Trevisan
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